Romanzo d’esordio di Sara Villa, “Strani intrecci del destino” è uno scritto ironico e divertente, a tratti imbarazzante, che fa bene al cuore. Una storia leggera ma mai banale, che ti farà trascorrere ore piacevoli in compagnia di un’amica della porta accanto. Un romanzo che strappa molte risate e anche qualche riflessione sul senso della vita.

Caterina, Kitti per amici e parenti, è una donna un po' stralunata di quarantacinque anni ancora alla ricerca di sé stessa e del vero amore. Proprietaria del suo amato “Atelier del benessere”, che odia venga sminuito con il termine generico di centro estetico, ha deluso tutte le aspettative dei genitori per inseguire il sogno di una vita diversa, fatta di meditazione e yoga, cultura del cibo sano e conoscenza del mondo orientale. Per lei, l’armonia e l’equilibrio interiore vengono prima di ogni altra cosa e nessun trattamento di bellezza potrà mai colmarne la mancanza. È per questo che ha deciso di specializzarsi in naturopatia, riflessologia plantare, aromaterapia e cromoterapia, filosofia olistica, massaggio ayurvedico e tantrico. Ed è stato durante un’esperienza di due anni in India che conosce il suo guru, Zen, che le ha insegnato tutto riguardo alla meditazione e alla mindfulness.

Scomparso da diversi mesi senza lasciare traccia, Zen ricompare nella vita di Kitti con messaggi criptici proprio nel momento in cui la sua situazione sentimentale sembra prendere una piega piacevole e inaspettata grazie ad Andrea, medico giovane e galante, con il quale scopre di avere un feeling particolare. Sarà vero amore o solo infatuazione?

Tra clienti dell’atelier sui generis, episodi divertenti e imbarazzanti e la ricerca costante di Zen, che sembra spiarla da chissà dove, Kitti riuscirà a scoprire il vero senso della vita?

Un romanzo ironico e divertente, dai risvolti imprevedibili.

Non perdertelo!

L’autrice Sara Villa ha deciso di raccontarci qualcosa in più riguardo alla sua attività di scrittrice e di condividere con noi quei piccoli “segreti” che ogni scrittore porta con sé. E allora, parliamone insieme.

Prima di tutto, buongiorno Sara e grazie per aver accettato di rispondere alle nostre domande. Iniziamo quindi dal principio: quando e come è nata la tua passione per la scrittura?
Contrariamente a quanto si possa pensare, ho scoperto la mia passione per la scrittura in tempi relativamente recenti. Mi spiego: ho sempre amato leggere, farmi trasportare in mondi nuovi e sconosciuti, entrare nella vita e nelle avventure di personaggi completamente diversi da me, e mi chiedevo come gli autori riuscissero a immaginare e poi a mettere in parola quelle meravigliose storie. Li ammiravo e avrei voluto possedere anche io quel dono. Ma non ho mai provato a scrivere nulla di mio finché non ne ho sentito l’esigenza, qualche anno fa. All’improvviso, è nato in me il bisogno di raccontare ciò che avevo dentro – ho avuto una vita travagliata e abbastanza movimentata, diciamo…  – così, un giorno mi sono seduta alla scrivania e ho iniziato a scrivere di getto tutto ciò che ricordavo. Ci sono voluti mesi, ovviamente, e la prima stesura era soltanto una bozza del tutto grezza che ho rimaneggiato più volte per raggiungere un risultato soddisfacente. Insomma, è stata una vera sorpresa scoprire di cavarmela abbastanza bene con le parole! In più questo esercizio mi aiutava a rilassarmi oltre che a rimarginare molte ferite ancora aperte...

Quindi possiamo dire che per te la scrittura ha, prima di tutto, una funzione catartica…
Assolutamente sì! O quantomeno all’inizio è stato così... Ripercorrere la mia vita, le vicissitudini, i dispiaceri, i problemi affrontati e superati e condividerli con i miei lettori mi ha aiutata tantissimo a ricucire ferite ancora aperte e a riconciliarmi col passato. E spero che il mio racconto possa aiutare coloro che ora stanno affrontando difficoltà simili. Ma dopo aver terminato questo primo esperimento letterario, come mi piace definirlo, ho deciso di chiudere la mia biografia in un cassetto e di dedicarmi alla scrittura per diletto. Così è nato il primo romanzo “Strani intrecci del destino”. Avevo voglia e bisogno di distrarmi, di cimentarmi nella stesura di qualcosa di leggero ma non banale, di divertente ma non scontato. Il gioco della scrittura mi era piaciuto e ho deciso di continuare a divertirmi e a sperimentare…

 Ma come nascono concretamente i tuoi romanzi?
I miei romanzi nascono da un’idea, prima molto generica e fumosa, poi via via più definita. Un’idea che può nascere spontaneamente dalla mia fantasia o da un input ricevuto dall’esterno: una scena a cui ho assistito in strada, una persona vista in metro, una frase sentita per caso. La mia mente elabora, crea connessioni e da lì scaturiscono nuove idee. Di solito le annoto su un taccuino per non dimenticarle. Poi, quando mi sento davvero ispirata, inizia la scrittura vera e propria.

 Quindi la tua è una scrittura di getto o strutturata dal principio alla fine?
La mia è una scrittura di getto, esattamente. Non riesco ad avere tutto ben chiaro fin da subito e non mi piace progettare nei minimi dettagli. Preferisco lasciare correre la fantasia e l’ispirazione dall’inizio alla fine e mettermi a scrivere solo quando sento che è davvero il momento giusto. Posso cambiare idea più e più volte in corso d’opera su ciò che succederà dopo, su come si evolveranno la storia e i personaggi: l’importante è che, giunta alla fine, tutto fili nel modo corretto.

Ti è mai capitato il cosiddetto “blocco dello scrittore”? E cos’hai fatto per sbloccarti, per così dire?
Mi è capitato tantissime volte, soprattutto agli inizi. C’erano giorni in cui sentivo la voglia di sedermi a scrivere ma la mente era completamente vuota. Non avevo idee, stimoli di nessun tipo. Mi intestardivo e la frustrazione inevitabilmente peggiorava. Più e più volte ho avuto l’istinto di gettare tutto all’aria e rinunciare. Poi ho finalmente capito che la cosa migliore era distrarmi, non pensarci più, chiudere tutto in un cassetto e dedicarmi ad altro. È in quel momento che la situazione si sblocca: possono volerci ore o giorni, ma l’ispirazione torna sempre, più forte di prima e ci si ritrova con decine di idee nuove da sistemare e sviluppare. Quello è per me il momento più soddisfacente. La mente ha bisogno di immagazzinare, creare collegamenti, rielaborare. Solo dopo viene tutto a galla ed è bellissimo rendersi conto che quei giorni di apparente inerzia sono, in realtà, molto più produttivi e prolifici di tanti altri spesi a scrivere senza la giusta ispirazione.

 

Sei solita condividere con amici e/o parenti i tuoi nuovi progetti?
Assolutamente no...(ride). Preferisco tenerli gelosamente nascosti fino alla fine della stesura: temo che eventuali consigli o giudizi – spesso non richiesti - possano influenzarmi e farmi venire nuovi ed inutili dubbi. Mi piace lavorare in tutta tranquillità, devo ammetterlo, e non sopporto che mi venga chiesto continuamente a che punto sono, quando finirò, ecc.

Ti affidi a qualcuno per una prima lettura e valutazione dello scritto una volta concluso? Magari ad una persona di tua assoluta fiducia…
Sì, ho una persona di fiducia: mio marito. Di lui mi fido ciecamente e se qualcosa proprio non lo convince, non si fa scrupoli a dirmelo. Ho sempre evitato di affidare la prima lettura ad altri che non fossero lui: ritengo che il giudizio di chi ci sta più vicino sia poco obiettivo e, in una parola, inaffidabile; i sentimenti non possono essere imparziali. Come può un amico o un parente dirti che il tuo libro non è poi così speciale? Che andrebbe rivisto da capo a piedi e che non ha alcun valore letterario, o di intrattenimento o che so io? E poi, a dirla tutta, penso che le critiche debbano essere costruttive, non basate solo sul semplice gusto personale… Diciamo che, subito dopo averlo fatto leggere a mio marito, affido il testo direttamente al mio editor di fiducia!

Ti è capitato di arrivare alla fine della stesura e di non sentirti più così soddisfatta di ciò che hai prodotto?
Sempre! Ma non riguardo allo scritto nel suo complesso, per fortuna. Di solito rivaluto soltanto alcune parti, le riscrivo, le rileggo e poi, magari, mi pento anche di averlo fatto (ride)!

E come reagisci a questa insoddisfazione? O confusione se preferisci…
Di solito chiedo aiuto al mio editor che mi fornisce un riscontro professionale ed immediato. Penso che rivolgersi ai professionisti sia la cosa migliore da fare in questi casi: un occhio esterno e di esperienza, emotivamente distaccato, valuta le opere per ciò che realmente sono, forte della sua professionalità e senza alcun timore di ferire chi gli sta di fronte.

Per concludere, cosa vuoi dire a chi si cimenta per la prima volta nella scrittura?
Leggete, leggete tanto, non smettete mai! E quando vi sentirete pronti, iniziate a scrivere senza pretendere troppo da voi stessi. Provate e riprovate, sperimentate, gettate via tutto e ricominciate da capo finché non sarete davvero padroni delle parole e delle storie che intendete scrivere. Non demoralizzatevi, non demordete, non smettete mai di studiare e di imparare... E soprattutto, non sentitevi mai arrivati! La perfezione non esiste, si può sempre fare di meglio!

In bocca al lupo a tutti!

 

Ogni scrittore di narrativa sa che, prima ancora di apprendere i trucchi del mestiere, dovrà rispettare la prima grande regola per chiunque si cimenti a riempire di parole un foglio bianco: scrivere ciò che si conosce. Un assunto, questo, perfettamente ragionevole e di buon senso che funge anche da ottimo punto di partenza per la creazione di trame, ambientazioni e personaggi. Così come Annie Ernaux, l’ultima premio Nobel per la letteratura, ha raccontato nel suo Les Années la sua storia personale con l’obiettivo – centrato ampiamente - che diventasse una storia collettiva, ogni scrittore auspica che le proprie esperienze, descritte come tali o trasfigurate per scopi narrativi, riescano a generare emozioni nei lettori e diventino così, in qualche maniera, indimenticabili. Per far questo, oltre alla conoscenza precisa di ciò che si intende raccontare – ogni buon scrittore conosce la fine del proprio romanzo molto prima di iniziare a scrivere il primo capoverso – c’è qualcosa che in un certo senso anticipa, e dà senso, al processo narrativo stesso. Se dovessi definire questo qualcosa lo chiamerei senz’altro passione.

È la mia passione per la vita ad aver scritto i miei romanzi. Con il primo, una volta terminato e dato alle stampe, ho compreso che ogni termine adoperato, ogni personaggio di cui ho delineato i contorni, ogni teatro degli avvenimenti che ho descritto, è nato prima di tutto all’interno del mio cuore. Sono immagini, principalmente, quelle che ho messo su carta. Immagini che ho avuto davanti agli occhi per qualche istante o per anni, da bambina o da adulta; immagini che corrispondono a luoghi e persone che hanno marcato la mia esistenza in maniera indelebile e che poi io ho trasformato in parola.

Guardandomi indietro, trovo che molto di ciò che più ha catturato le mie emozioni negli anni - gli affetti personali in primis – sia finito tra le pagine dei miei primi due libri. Passioni organiche, personali, nate dall'esperienza vissuta e non create di sana pianta per un incarico di scrittura. Passioni che ho voluto condividere con chiunque abbia voglia, o interesse, di conoscere la storia di una donna che ha fatto del benessere e della buona salute, sua e del prossimo, una ragione di vita.



Non conto le volte in cui ho avuto dubbi sulla mia scrittura. A dire il vero, per anni ho lottato con questa insicurezza e con l’incapacità di giudicare i miei testi. Abile nel capire quando un manoscritto altrui colpiva nel segno, alla fine ho deciso di lasciare che fossero gli altri a giudicare i miei scarabocchi. Rassegnata. Poi un giorno, quasi per caso, mentre progettavo il mio terzo romanzo e mi chiedevo come fare a raccontare una parte della mia vita così delicata e complessa senza tralasciare alcun dettaglio che l’ha resa tale, ho deciso di lavorare con una certa intensità sulla costruzione di ogni singola scena del mio racconto. Più nello specifico, mi son sforzata di scrivere decine di sinossi in cui abbozzavo i tratti principali dei personaggi in gioco e il teatro degli avvenimenti. In tal maniera, quasi senza nemmeno accorgermene, quella nuova visione particolareggiata degli eventi mi ha concesso di cambiare prospettiva sugli stessi e, dunque, di pormi una serie di domande che mai prima di allora mi erano balenate nel cervello.

Il segreto per giudicare i miei testi nella maniera più obiettiva possibile era proprio davanti ai miei occhi ma non riuscivo a vederlo. Avvicinando la lente d’ingrandimento ai miei racconti e vivisezionandoli quasi parola per parola, è stato inevitabile chiedermi il loro senso generale e specifico: cosa voglio che il pubblico senta o pensi mentre legge questa precisa parte del mio racconto? Questa scena fa progredire la storia oppure è insignificante ai fini generali? Come aggancio il lettore in modo che voglia continuare a leggere e non mi abbandoni proprio ora? Ebbene, quando non riuscivo a rispondere a queste domande, qualsiasi cosa avessi scritto era da considerarsi... spazzatura! O qualcosa del genere, insomma; di sicuro poco adatta ai miei scopi e quindi da gettare via, lontano dai miei occhi e, soprattutto, da quelli dei miei lettori.

Una volta compreso e assimilato questo mio nuovo metodo per cambiare prospettiva sui miei racconti, il passo dal riuscire a giudicarli è stato breve e, devo dire, emozionante. “Sono io il pubblico che legge per la prima volta ciò che scrivo” è diventato ormai il mantra. Ora non mi affido più solo alle opinioni degli altri, per quanto necessarie. Ho affinato i miei personali strumenti per uscire dal torbido dei dubbi sulla mia scrittura e spero di utilizzarli ancora per molto tempo.

 

 

A volte sono la prima a chiedermi da dove nasca la mia voglia di scrivere. Come tanti autori, anche io ho conosciuto il ben noto “blocco dello scrittore” e so cosa significa restare immobili di fronte ad un foglio bianco con assolutamente niente da dire, o da scrivere piuttosto. A dirla proprio tutta, io sono quel genere di scrittrice che impugna la penna, o batte sulla tastiera, solo quando si sente pronta per farlo o, almeno, crede di esserlo. Certo, talvolta sono stata costretta a scrivere senza se e senza ma, per fini editoriali principalmente, anche se per fortuna si è trattato di episodi sporadici.

Sento spesso parlare di ispirazione in contesti letterari e, più in generale, artistici. Ci hanno sempre fatto credere che gli antichi si rivolgessero alle loro Muse, in carne ed ossa o sotto forma di semplici allegorie, perché li ispirassero nella redazione dei loro poemi e canti. In qualche maniera Omero, ma come lui più tardi anche Dante con Virgilio e la sua divina Beatrice, ci ha voluto convincere che i suoi racconti fossero il frutto di un’illuminazione, o di una serie di illuminazioni piuttosto, del tutto simili all’annunciazione della Beata Vergine Maria. È in questa maniera che si è creato il mito dello scrittore-veggente, ovvero di colui che scrive in uno stato di quasi-trance e le cui parole sono dettate da una o più entità soprannaturali. Ma erano altri tempi quelli, tempi in cui chi aveva la capacità di redare un testo scritto, e fino all’Ottocento non erano certo in molti a poterlo fare, era considerato quasi alla stregua di un profeta. Oggi le cose sono cambiate, gli scrittori hanno perso la loro aurea magica e, in un certo senso, il loro ruolo di preminenza nella società.

Nessuno crede più che un libro sia un oggetto miracoloso prodotto da chissà quale mago o alchimista e contenente le risposte a tutte le domande dell’uomo. La stragrande maggioranza dei lettori del XXI secolo cerca nella letteratura solo un po’ di svago o, al limite, di conforto. Ecco perché tutti conoscono autori come Stephen King o Ken Follet, non certo famosi per il loro stile particolarmente ricercato: le storie che imbastiscono inchiodano il lettore alla sedia e gli permettono di dimenticare, almeno per qualche ora, i suoi turbamenti quotidiani. Per scrittori di questo genere, dai quali ci si aspetta almeno un romanzo da ottocento pagine all’anno, l’ispirazione non può che essere una grande baggianata. Per loro esistono solo metodo, costanza e duro lavoro quotidiano.

Forse è vero che col tempo si è perso un po’ il “senso del bello”. Ma è vero anche che gli individui del nuovo millennio, rispetto ai loro avi, oltre che più scolarizzati, sono anche decisamente più esposti a stimoli esterni di ogni genere. Le storie banali, o comuni, non suscitano più alcun interesse, seppur scritte a regola d’arte. E in questo senso gli scrittori si sono, naturalmente, conformati. Ecco perché io cerco i miei incoraggiamenti letterari, piuttosto che la famosa ispirazione, in ciò che vedo e sento nei libri, alla radio, sul Web o alla TV. Leggo moltissimo, questo lo ammetto, ma spesso una serie televisiva, una trasmissione radiofonica o una canzone, sono in grado di trasmettermi una voglia irrefrenabile di mettermi a scrivere. Molto più di un grande classico contemporaneo.

John Maxwell Coetzee, scrittore sudafricano premio Nobel per la letteratura nel 2003, un giorno durante un’intervista dichiarò: «Tutta l’autobiografia è narrazione, tutta la scrittura una massiccia impresa di scrittura autobiografica che riempie una vita».

In altri termini, Coetzee dice che ogni autore è capace a scrivere solo di sé stesso. Non importa che lo faccia in maniera indiretta, magari dipingendosi come l’uomo o la donna che avrebbe sempre voluto essere, o in maniera diretta, come nel mio caso. Ciò che conta è tenere a mente che l’atto del raccontare non può prescindere dall’esperienza di vita del narratore. Così come Melville scrisse di spaventose balene bianche perché proprio di cetacei fu pescatore, anche io, seppur lontana dal poter riferire di storie fantastiche come quelle del capitano Achab e del terribile Moby Dick, parlo nei miei libri delle mie avventure e di quanto questo mondo possa davvero essere un luogo incredibile.

A volte penso di aver vissuto solo per poterlo un giorno raccontare. Fin da giovanissima ho avuto la sensazione che nella mia vita ci fosse qualcosa di unico e speciale, qualcosa che valeva la pena condividere. Forse tutti noi lo pensiamo. Per quel che mi riguarda, posso affermare di aver atteso a lungo il momento in cui avrei finalmente impugnato la penna e iniziato a scavare nella mia memoria. Ma non crediate che abbia osservato passivamente l’età inesorabile avanzare! Al contrario, ho vissuto con passione ogni secondo della mia vita catalogando centinaia, forse migliaia, di esperienze comuni, o fuori dal comune, e registrando col cuore almeno un miliardo di emozioni. Quelle emozioni, quelle storie, le ho portate con me e sono finite nei miei libri. Ma non tutte…

Quando riflettevo al mio ultimo romanzo, del quale non posso ancora svelare il contenuto, mi sono resa conto che non avrei mai e poi mai potuto dedicare spazio ad ogni singolo avvenimento accadutomi in quei mesi. Ho cercato così nella mia memoria i momenti che hanno maggiormente caratterizzato il periodo in questione e tra loro ho scelto quelli più marcanti a livello emotivo. In questa mia cernita, ho dunque creato una gerarchia degli eventi e, in qualche modo, oscurato volontariamente alcuni episodi per metterne in luce degli altri. Così facendo ho compreso che ogni scritto, dichiaratamente autobiografico o meno, nasce prima di tutto da un’accurata selezione. È questo infatti che faccio ogni volta che scrivo: rifletto, scelgo, sottolineo e depenno. Il resto poi viene da sé.

Ogni volta che mi pongono questa domanda trovo una risposta differente ma non di meno sincera. La verità è che più ragiono alle motivazioni che hanno generato i miei romanzi, più queste si mescolano tra loro, si confondono, si intersecano, si annodano, fino a diventare una matassa informe e multicolore.

Fin da piccoli ci insegnano che scrivere significa buttare i propri pensieri sulla carta. Ricordate i diari segreti dell’infanzia e dell’adolescenza? Tutti, o quasi tutti, ne abbiamo avuto uno. Era come il nostro amico del cuore, non è vero? L’amico a cui, a sera, potevamo confidare di tutto senza arrossire o temere di essere giudicati per i nostri pensieri e i nostri gesti. Ebbene, prima di muovere i primi passi nella mia avventura da scrittrice, ero perfettamente convinta che l’atto di scrivere si limitasse alla mera osservazione del flusso continuo dei miei pensieri. Proprio come avevo fatto da giovanissima con il mio caro diario, il mio compito, ne ero certa, si limitava a non porre alcun filtro tra il mio cuore e la carta.

Questo, d’altronde, è quello che si insegna ai corsi di scrittura creativa. Così mi son ritrovata molto presto a produrre una serie di scritti dal sapore intimista, testi quasi top secret che perfino io, alle volte, alla rilettura trovavo imbarazzanti. Sebbene la pratica quotidiana mi abbia permesso di perfezionare i miei strumenti, ero certa che alla mia scrittura mancasse qualcosa. Fu una mia cara amica, senza volerlo, a farmi comprendere che cosa. Quando un giorno mi chiese di poter leggere i miei scritti, dei quali solo lei all’epoca conosceva l’esistenza, entrai letteralmente nel panico. Mai prima di allora avevo riflettuto al fatto che la scrittura fosse, prima di tutto, condivisione. E condividere significa comunicare, ovvero trasmettere un messaggio a un interlocutore attraverso dei mezzi standardizzati, come il linguaggio scritto appunto.

Questa semplicissima verità, che da sempre ho avuto davanti agli occhi, mi ha sconvolto a tal punto che rileggendo i miei testi per offrirli alla mia amica, ho provato nei loro confronti come una sorta di repulsione, quasi un dolore fisico, una nausea incontrollabile. Senza rendermi conto, la mia prospettiva sulla scrittura era radicalmente cambiata, e a giovarne fu soprattutto la mia maniera di scrivere. Da quel giorno, ogni volta che mi accomodo davanti alla tastiera del mio PC, è come se la mia amica fosse sempre seduta al mio fianco. Se lei non capisce quanto ho scritto o se si annoia leggendo i miei racconti, significa che devo sforzarmi di essere più chiara o che il mio testo ha bisogno di più movimento.

Ecco quindi cosa mi spinge realmente a scrivere, al di là dell’amore enorme che nutro verso la letteratura: il bisogno di comunicare, non solo a me stessa ma anche al resto del mondo, quanto mi frulla nella mente; senza filtri, senza nausea, senza freni.

Continuo ad operare nel mondo della salute e del benessere, e nutro non pochi dubbi sulla sostenibilità economica del mestiere di scrittrice. Per quel che vedo, quasi tutti gli scrittori che ho potuto conoscere in questi anni hanno un lavoro parallelo: chi insegna a scuola, chi fa l’architetto o l’avvocato, chi l’operaio in fabbrica. Nessuno, insomma, tolti i grandi nomi della letteratura, nella vita scrive e basta. E questo accade, essenzialmente, perché scrittori si diventa con il tempo. Spesso lo si è da tutta la vita senza esserne necessariamente consapevoli, ma questo è un altro paio di maniche.

Detto ciò, le vite degli autori più famosi della nostra epoca, dimostrano che tra il momento in cui si inizia a scrivere, il momento in cui si viene pubblicati e il momento in cui si incontra il successo, possono passare diversi decenni. Io ho pubblicato tre romanzi in pochi anni, ma ancora non mi sento pienamente una scrittrice né, tantomeno, intravedo il successo nel mio prossimo futuro. Non penso che riuscirò mai a vivere di letteratura, anche se le opportunità di guadagnare denaro con le vendite dei libri oggi sono notevolmente maggiori rispetto al passato. Questa è infatti l’epoca del crowdfunding, dell’editoria online, di Amazon… Tuttavia l’aspetto economico è per me del tutto marginale a questo stadio della mia evoluzione come scrittrice. Quel che più mi interessa, ora come ora, è che ogni mio libro sia migliore del precedente in quanto ad architettura e stile. Che venda due, duecento o duemila copie dipende da fattori che in alcuni casi esulano completamente dal mestiere letterario.

Sento di star progredendo romanzo dopo romanzo, anche per quel che riguarda il rapporto con i miei editor. Ho accettato ormai il fatto che un buon editor è colui che riesce a capire il mio mondo meglio di me stessa, e così, più spesso di quanto mi renda conto, mi lascio spingere a scrivere ciò che i professionisti pensano che io sia destinata a scrivere… Ci vuole molta pazienza ed umiltà per accettare di dover cancellare dieci o venti pagine solo perché non piacciono a qualcun altro! Fortunatamente io possiedo una scorta inesauribile di quella che chiamano ispirazione e ho ancora un mucchio di cose da raccontare. In effetti penso che il 99% del tempo che dedico alla scrittura sia lontano dal foglio o dallo schermo del mio PC. Potrebbe sembrare paradossale, e lo capisco, ma scrivere un romanzo è per me come costruire una casa con la mente. E la mia immaginazione, francamente, non ha prezzo.

Scrivere Codice Rosso è stato come scavare dentro le mie viscere per recuperare i pezzi di una storia che mi sforzo di non dimenticare. La memoria che conservo dei tremendi mesi della pandemia da Covid 19 è una memoria a tinte fosche. I ricordi si dipanano veloci nella mia mente, così veloci che ho dovuto penare non poco per organizzarli e presentarli secondo un ordine cronologico certo. Non è stato infatti per niente facile ricordare i mesi che hanno preceduto il fatidico 9 marzo del 2020, primo giorno di lockdown in Italia, né è stato facile rammentare come, lentamente ma inesorabilmente, la mia vita, così come quella di ogni abitante della Terra, sia stata rivoluzionata.

La deflagrazione di quella bomba chiamata Covid 19 non ha lasciato scampo a nessuno, tantomeno a noi volontari del Pronto Intervento che, notte e giorno, abbiamo combattuto fianco a fianco contro un nemico invisibile e senza pietà. Sono stata investita dall’onda d’urto del virus in maniera del tutto improvvisa e con una tale violenza che il mio corpo non tornerà più ad essere lo stesso. Porto ancora, chiarissimi, i segni del terribile contagio su di me. Aver combattuto in prima linea è stata un’esperienza terribile, soffocante, spaventosa, che sono tuttavia fiera di aver vissuto e che ho affidato alle pagine di questo mio terzo libro.

Tutto ebbe inizio nel dicembre del 2019, così come confermano gli studi effettuati sul virus di Wuhan, in Cina. Noi operatori sanitari sentivamo che stava accadendo qualcosa di particolare anche se nessuno di noi poteva nemmeno immaginare di cosa si trattasse. Eravamo sotto Natale quando al centro operativo del Pronto Intervento iniziammo a ricevere le prime, numerosissime, chiamate per problemi legati all’apparato respiratorio. Si trattava per lo più di anziani, ricordo, colpiti da polmoniti prima del periodo più freddo dell’anno. Le bombole d’ossigeno a nostra disposizione iniziarono a scarseggiare da subito, proprio mentre i Tg nazionali iniziarono a parlare di pandemia e di emergenza sanitaria. Il 2020 è stato per me un anno durissimo, fatto di sacrifici e di solidarietà, ma anche di nervosismi, ansie, incomprensioni, malesseri e dolore. Il dolore di vedere ogni giorno uomini, donne e bambini lottare per le loro vite appese ad un respiro, lo porterò sempre con me. Le gioie, durante la pandemia, sono state poche ma indescrivibili. Una di esse, la nascita del piccolo Jacopo, rimarrà per sempre dentro il mio cuore.

Non conto più le volte in cui ho pensato di abbandonare il progetto Codice Rosso. Nessun altro romanzo mi ha costretto ad immergermi così a fondo nei meandri delle mie emozioni. Ne sono uscita frastornata, con più dubbi di quanti ne avessi prima ma orgogliosa di aver ricucito quei delicati brandelli della mia memoria.

Scrivere romanzi non è semplice, almeno per quel che mi riguarda. In effetti penso che esista un gruppo di autori, nemmeno tanto ristretto, per i quali la narrativa non è una divertente passione ed io credo di appartenere a questo gruppo di persone, le cui vite sono, in qualche maniera, modellate e definite dall'atto di scrivere narrativa ma, allo stesso tempo, intrappolate in esso.

Mi è ancora difficile credere di essere una "romanziera", e le ragioni di questa difficoltà nell’accettare me stessa in quanto scrittrice credo che siano molteplici. Una di queste è senz’altro legata al disagio fondamentale nei confronti della narrazione stessa, ovvero la dura ammissione a sé stessi che il proprio piacere di base è quello di essere costantemente altrove, se non con il corpo almeno con la mente. Un'altra ragione per la quale non ritengo la scrittura un’attività così divertente, è il fatto che la società suppone che il romanziere produca romanzi in modo naturale, automatico e regolare come una mucca dà il latte. Non è così, e mi piacerebbe che i lettori lo capissero.

È vero, scrivere mi dà un grande piacere, anche se non sempre. Scrivere un romanzo è in gran parte un esercizio di disciplina psicologica: cercare di tenere in equilibrio il proprio progetto sul mento mentre ci si avventura in un campo minato di depressione e di scatti d'ira non è facile. Iniziare è scoraggiante; trovarsi a metà strada ti fa sentire come Sisifo; finire a volte comporta la delusione di sapere che questa collezione finita di parole è tutto ciò che rimane della tua idea infinitamente ricca. Lungo il percorso, ci sono le insidie del disgusto per se stessi, della noia, del disorientamento e di un persistente senso di inadeguatezza, occasionalmente alternati a episodi di autocompiacimento isterico quando si crede fugacemente di aver azzeccato quella particolare frase e di essere sicuramente destinati a unirsi alla schiera degli immortali, per poi trovarsi di fronte, la mattina dopo, a una spaventosa farragine di cliché che nessun essere umano sano di mente potrebbe leggere senza vomitare. Ma quando si è in zona, quando si fanno girare le parole come piatti, si prova un profondo senso di soddisfazione e, sì, di piacere...

Durante la mia carriera di scrittrice ho partecipato a diversi incontri di lettura in cui ho potuto presentare pubblicamente i miei libri. La mia opinione a riguardo è che gli eventi di persona continuano ad essere, nonostante l’avanzata frenetica del digitale in ogni settore della vita umana, uno dei modi più efficaci con cui gli autori possono raggiungere i loro lettori. È sorprendente scoprire, da scrittrice, quante persone desiderino conoscermi dopo aver letto i miei romanzi. Se da una parte l’interesse mostrato dal pubblico nei confronti dei miei lavori mi riempie di felicità, da un’altra crea in me imbarazzo e voglia di far sempre meglio, e non solo dal punto di vista prettamente letterario.

Qualsiasi scrittore che decida di introdurre nella sua strategia di marketing le presentazioni pubbliche dei propri libri, deve tenere a mente un concetto fondamentale: non è facile; non è facile parlare con chiunque di quel che abbiamo scritto nella solitudine dei nostri studioli; non è facile condividere la nostra vita di fronte a decine, a volte centinaia, di volti sconosciuti; non è facile rispondere a domande tecniche imprevedibili ed impreviste quando si ha un microfono in mano e una platea che ci scruta ossessivamente e – ebbene sì – ci giudica per quel che vede. Che ci piaccia o meno, è proprio in queste occasioni pubbliche dove niente è facile, che si decide gran parte del futuro dei nostri libri.

Conosco moltissimi scrittori alle prime armi che si lanciano a capofitto, e senza paracadute, in qualsiasi festival, conferenza o fiera di cui gli capita di scoprire l’esistenza. Sono convinti che presentare pubblicamente il loro libro sia, già di per sé, sufficiente per incrementarne le vendite. In realtà, le cose non sono così semplici, e l’opportunità di presentare pubblicamente i nostri libri può rivelarsi un’arma a doppio taglio. È necessario, infatti, tenere sott’occhio una serie di dettagli che possono davvero fare la differenza. La durata, il luogo e l'affluenza prevista, per esempio, possono influenzare notevolmente il piano di un evento, così come l'età e gli interessi dei partecipanti. Qualsiasi sia il teatro della nostra presentazione, è comunque fondamentale entrare fin da subito in contatto con il pubblico, cercando di mantenere viva la discussione anche quando non sembra ci sia ancora molto altro da dire. In tal senso, uno dei consigli che mi sento di dare ai miei colleghi che si accingono a presentare per la prima volta i loro libri davanti ad una platea di ascoltatori, è quello di prestare massima attenzione ai tempi e ai ritmi dei loro discorsi. Ciò vale anche quando, e capita spessissimo, gli organizzatori di un evento ci spingono a leggere estratti delle nostre opere: è importante, in queste occasioni, scegliere attentamente i passaggi da esporre al pubblico, tralasciando volutamente quelli che risultano ben scritti ma poco ben movimentati. Ho imparato sulla mia pelle che i lettori, di solito, apprezzano l’azione e molto poco i retroscena, ed è per questo che scelgo accuratamente per loro le parti dei miei libri in cui emergono conflitti, turbolenze, scontri in genere e, in altri termini, movimento e suspense.

Essere l’autrice di un libro in vendita nelle librerie d’Italia era il mio sogno di adolescente, ma è solo da pochi anni che ho avuto il coraggio, o lo slancio adatto, piuttosto, per intraprendere questo viaggio. Ho atteso tanto, forse troppo, prima di mettermi seduta davanti ad una macchina da scrivere. E questo perché, lo ammetto, prima di farlo desideravo che il mio bagaglio di esperienza, di lettura e di vita, fosse sufficiente per permettermi di arrivare fino in fondo ai miei progetti e alle pagine bianche. Oggi mi rendo conto che, mentre la vita prendeva le sue pieghe e alcune esperienze, buone e cattive, sia sul fronte personale che su quello professionale, segnavano la mia esistenza, io di fatto mi preparavo a diventare la scrittrice che sono oggi.

Per scrivere il mio primo libro, sapete, mi ci è voluto un anno circa di lavoro: una montagna di tempo per una donna impegnata come me! Ma tutto è iniziato una notte qualsiasi, in maniera naturale e spontanea, con uno o due paragrafi. Ricordo che, una volta scritti e riletti quei primi fogli, li ho ficcati nel cassetto della mia scrivania e, per settimane, ho evitato perfino di pensarci, quasi fossero un errore, una distrazione. Quando gli ho ripresi in mano, un po’ titubante, giorni e giorno dopo, quasi avevo dimenticato cosa avessi scritto. È stato come leggere le parole di qualcun altro, un’esperienza incredibile e indescrivibile, al limite del mistico. Ed è stato in quel momento preciso che è nata nella mia mente l’idea che quelle prime paginette sarebbero potute diventare un romanzo, il mio romanzo. Ecco, quindi, come ho iniziato a scrivere: quasi per caso, quasi senza intenzione. Non avevo piani, non avevo un programma, non avevo una trama: ho semplicemente preso spunto da quei due paragrafetti iniziali e ho continuato a scrivere senza fermarmi mai. È stata la storia che ho scritto che mi ha condotto fino alla sua ultima pagina. È difficile spiegare quello che accade nella mente quando si scrive come scrivo io: è come se mi mettessi letteralmente a inseguire le mie parole, sorprendendomi alle volte di quanto corrano veloci, più veloci dei miei pensieri stessi.

Dopo tre romanzi posso affermare che se si ha un piano, se si conosce la fine della propria storia quando si inizia, scrivere non è così divertente come si crede. È come dipingere: un pittore può fare degli schizzi a matita prima di prendere in mano la tavolozza dei colori, può riflettere ad ogni dettaglio del suo disegno prima ancora di realizzarlo; oppure, più semplicemente, può mettersi a colorare una tela bianca inseguendo i gesti della sua mano e meravigliandosi secondo dopo secondo.

Spesso mi chiedono che rapporto ho con la scrittura creativa. La mia risposta è sempre la stessa: se non fosse per la scrittura creativa non riuscirei a scrivere nemmeno una pagina dei miei romanzi! Di solito mi concentro su un argomento qualsiasi, inerente o meno a quello che ho scritto ieri o che scriverò domani e poi, semplicemente, lascio che la penna vaghi sul foglio come meglio crede. Un esempio? Eccolo qua:

“Il crepuscolo si stendeva come una tela d'oro sullo skyline della città, mentre le strade si riempivano di ombre sfuggenti e luci al neon danzanti. In quel momento mi ritrovavo seduta alla mia antica scrivania di mogano, la penna tra le dita e un foglio di carta bianca che attendeva ansiosamente di essere segnato dalle mie parole. Era il mio rituale serale, il momento in cui il mondo esterno svaniva, e il mio universo privato prendeva vita.

Le mie dita danzavano sulla tastiera, una sinfonia silenziosa di creatività. Era come se ogni tocco fosse una nota musicale, un frammento di me stessa che prendeva forma attraverso le parole. La mia mente era un labirinto di pensieri e emozioni, e la scrittura era la mia bussola per navigare tra le sue profondità.

La storia che stavo creando era un mistero intricato, un puzzle di indizi e sospetti. I personaggi che avevo plasmato avevano vite complesse e segreti ben custoditi, e io ero l'architetto del loro destino. Ogni parola era una scelta ponderata, un mattoncino nell'edificio narrativo che stavo costruendo con cura.

Mentre scrivevo, potevo sentire la presenza dei miei personaggi intorno a me, come se fossero veri e vivessero le loro storie accanto a me. La tensione saliva a ogni pagina, il mistero si infittiva, e le vite dei protagonisti si intrecciavano in un intricato gioco di destini intrecciati.

Le ore passavano senza che me ne accorgessi, e quando finalmente alzai gli occhi dal mio lavoro, la notte era caduta completamente sulla città. Era un'altra notte di creazione, un'altra pagina scritta nella mia lunga storia da scrittrice. E mentre riposavo la penna, sapevo che il mio compito era quello di portare avanti questo viaggio, di dare vita a mondi e personaggi, e di continuare a dipingere con le parole sulla tela della mia immaginazione”.

Abbiamo parlato un po’ di tutto durante le nostre interviste, ma siamo sempre stati ben lontano da un argomento particolarmente sensibile per chiunque scriva per mestiere o per diletto: il blocco dello scrittore o, come lo chiamo io, il panico da tastiera. Si tratta di un'esperienza intensa, spesso paralizzante e di sicuro dolorosa che può colpire il principiante come l’autore più esperto. L’aspetto positivo della faccenda, è che imparare a riconoscere le cause del panico può aiutare ad evitarlo.

Quindi, prima di tutto, è necessario chiedersi cosa ci rende improvvisamente incapaci di scrivere anche una singola parola. Cosa fa sì cioè, che le idee svaniscano dalla mente e che ogni tentativo di mettere le parole su carta diventi vano? Al primo posto tra le varie cause del panico da tastiera, annovero senz’altro i dubbi sulle mie proprie abilità. A provocarli sono di solito altri scrittori – e chi sennò? – di cui mi capita di leggere i libri. È per questo che ho scelto di auto-proteggermi dalle grandi opere letterarie, come i classici per esempio, evitando il più possibile di tenerle perfino tra le mani. Sembrerà folle che una scrittrice tema le novelle di Emily Brontë, ma tant’è…

Oltre al deleterio confronto con i maestri dell’arte della scrittura, il perfezionismo eccessivo è un altro problema da affrontare molto seriamente. Mai, e sottolineo mai, aspirare alla perfezione! È proprio mentre si tenta di non sbagliare mai che si compiono i peggiori errori e, al peggio, si rimane imbambolati di fronte alla pagina bianca. E lo stesso accade quando pretendiamo di ricevere solo critiche positive dagli editori e quando ci sforziamo di rispettare tempistiche che contrastano con il nostro flusso creativo. Insomma: liberarsi dallo stress delle valutazioni, che siano personali o esterne a noi, è un toccasana per la scrittura.

Anche uscire di casa e staccarsi dalla tastiera per qualche ora, o giorno, può aiutarci a riprendere il ritmo perduto. La risposta a tutte le nostre domande, su un personaggio che per un motivo o per l’altro non riusciamo più a descrivere, su un’ambientazione o su una scena, si trova sempre lontana dalla nostra scrivania, magari dentro un bar, o un supermercato, e di sicuro non nella nostra stanza.

Il consiglio che posso dare a tutti coloro che cercano di superare il panico da tastiera, è quello di scrivere sempre e con costanza evitando in ogni maniera di giudicare troppo severamente i propri scritti. Quanto ai giudizi talvolta impietosi delle case editrici, be’, pazienza!

Ho già accennato all’importanza di promuovere il proprio libro in maniera adeguata. Tra le attività cosiddette promozionali alle quali ogni scrittore deve obbligatoriamente partecipare, ce ne sono alcune che richiedono particolare impegno e preparazione, come le interviste televisive o radiofoniche per esempio.

Immaginate di aver scritto un libro tutto vostro e di essere in procinto di darlo alle stampe. Il vostro editore ha capito la vostra visione, la copertina è ormai stata scelta, l'impaginazione interna è fatta e ora non vi resta che presentarvi al mondo in qualità di autore. Le prime occasioni per farlo verranno da vicino, da vicinissimo anzi: il giornale della vostra città, la radio locale, il podcast che seguite da tanti anni, ecc. Ebbene, come vi preparereste per un’intervista?

Lo confesso: la prima volta che ho partecipato ad un’intervista in qualità di intervistata, ero emozionatissima e non smettevo di ripetermi che non ce l’avrei mai fatta a parlare dentro un microfono e a trattenermi da dire cose sconvenienti; cose del tipo “ne abbiamo ancora per molto?” o “ma che razza di domanda è mai questa?”. In realtà tutto è andato per meglio e la prima esperienza mi ha insegnato un sacco di cose interessanti.

Tra i vari consigli che mi sento di poter regalare ai neo-autori in vista della loro prima apparizione pubblica, il primissimo, nonché il più importante, è il seguente: informatevi a fondo sulla tipologia di intervista – Tv o radio; diretta o differita e fascia oraria di trasmissione; ecc. - che dovrete affrontare e sui giornalisti che incontrerete. Per la televisione, ad esempio, è importante l'aspetto visivo, in particolare quello che si indossa e la naturalezza con cui ci si esprime. Ora prendete nota nel caso vi capiti di andare in TV: niente abiti a righe! Con un podcast senza video, invece, potreste essere in pigiama e l'ascoltatore non se ne accorgerebbe… una pacchia insomma!

Prima dell'intervista, ricordate di guardare, ascoltare o leggere i servizi precedenti dei vostri intervistatori. In questo modo vi farete un'idea delle domande che il conduttore pone ogni volta. Io ho un trucco: le domande le esigo in anticipo!  Ricordate però che la stampa tradizionale e la televisione di rete non vi diranno mai cosa vi chiederanno, questo perché i giornalisti considerano questo tipo di avviso una violazione etica. A quel punto non vi resta che cercare online tutte le trasmissioni precedenti dell’intervistatore e prendere un sacco di appunti!

Una volta studiate le domande che gli intervistatori potrebbero farvi, parliamo di come rispondere. Prima di tutto, ricordate: è un errore rispondere direttamente alle domande di un giornalista! Orientate invece la conversazione verso il vostro obiettivo personale. Perché avete accettato l'intervista? Perché state promuovendo il vostro titolo? La risposta a qualsiasi domanda posta da un giornalista dovrebbe derivare da questo obiettivo. Quindi, ricordate sempre di scrivere alcuni punti di conversazione che si ricolleghino a questo obiettivo. Ecco un esempio legato alla domanda più comune e scontata del mondo: da dove viene? Ebbene, anche in questo caso sappiate che potrete portare l’acqua al vostro mulino.  Non limitatevi dunque a rispondere “da Poggibonsi”, ma parlate di come siete cresciuti in una comunità che ha favorito in voi questa grande adorazione per la letteratura.

Continua…

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